Archive for category lo zen e l’arte del tricot

Tovagliette americane in papiro

Chissà cosa mi è passato per la mente quando ho acquistato quella rocca di fettuccia di papiro e cotone su e-bay. Forse che richiamasse il lino e potessi usarla per una fresca canotta estiva. Invece mi arriva questo filato piatto di un grigio argento meraviglioso, liscio al tatto ma troppo rigido per essere usato per l’abbigliamento.

E’ rimasta lì un poco finché non ho riesumato delle vecchie schede del giornale Pratica che penso di avere da almeno 20 anni e lì c’era uno schema per tovagliette all’americana semplici ma con una giusta alternanza di diritto e rovescio a creare un bell’effetto grafico e variazioni di luminosità sul filato che mi sono piaciute molto.

E’ diventato il mio progetto che riempiva i buchi tra un lavoro e l’altro, specialmente d’estate quando lavorare la lana era meno piacevole. Intanto che pensavo al progetto successivo ci infilavo una tovaglietta, pochi giorni era finita e si passava ad altro, e quando abbiamo aperto il nostro ufficio avevo 5 tovagliette perfette per l’angolo relax e il caffé di metà mattina.

Per questo mi ricordano il mare, quel grigio è variegato come granito sardo e sono felice di aver scoperto un nuovo filato naturale, anche se poco adatto all’abbigliamento.

Ne sono orgogliosa perché sono stranamente molto adatte all’arredamento dell’ufficio e perché c’è qualcosa di speciale avere sul posto di lavoro dei piccoli tocchi fatti a mano, da me medesima, perché secondo me le giornate a sviluppare software hanno tante sfaccettature e per non farle diventare fredde e asettiche bisogna circondarsi comunque di persone e oggetti cari, caldi e con una storia.

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Owlet, un gufetto per il cadetto

Aprile 2013 027Ieri ero a Napoli, sole, pizza e estate e tutte le banalità che ci vorrete aggiungere, mentre oggi a Bologna c’è una tempesta di quelle tutto buio in mezzo minuto, poi lampi impazziti a rischiarare e pioggia pioggia pioggia. E la Pollyanna che è in me ha pensato: ecco la mia ultima occasione per pubblicare le foto dell’Owlet, il maglioncino che ho regalato al mio bimbo per il suo compleanno a Marzo (il ritardo è talmente grande che lo ignorerò del tutto in questo post, siete quindi pregati di non farmelo notare).

Da tempo il cadetto mi chiedeva un maglioncino per sè, fatto da mamma. Ero perplessa perché i miei regali passati su fronte magliereccio non erano stati molto graditi, ma stavolta mi sono impegnata.

I miei figli hanno il diritto di scegliere cosa mettersi la mattina da quando hanno avuto la possibilità di comunicarlo. Il primogenito detesta di cuore i bottoni e ha avuto un anno che si è vestito prevalentemente di arancione e di verde e l’elegante gilet celeste che gli avevo fatto con un avanzo di lana della nonna non è mai uscito dal cassetto. No, vi assicuro che era carino, anche se presentato così non sembra.

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Il cadetto poi ha gusti difficili e se per caso mi azzardo io a preparargli degli abiti adatti alla stagione, la mattina, una volta su due li prende, li risbatte nel cassetto e ne seleziona altri adatti al suo umore mattutino. Quindi la prova non era facile, capite. Ma a richiesta cuore di mamma risponde, e la richiesta “Ma quando mi fai un mallione anche a me?” c’era stata.

Ci voleva un animale, visto che il Cadetto si sente un po’ Manimal dentro, o almeno lo suppongo visto che dichiara di essere un cucciolo diverso ogni mattina, un filato robusto ma naturale e un modello veloce da fare perché la data si avvicinava.

Avevo adocchiato varie versioni l’Owlet qua e là su internet, e lo trovavo adorabile, però c’era il rischio che diventasse un po’ lezioso: fortunatamente avevo un filato  grigio melange da lavorare con i ferri del 4, resistente e veloce da lavorare.

Per evitare il sovraccarico decorativo ho aggiunto gli occhi, semplici bottoni neri, solo ad uno dei gufetti dello sprone, mentre gli altri si intuiscono dal disegno a trecce.

Ho molto apprezzato il modello: dopo aver adattato il campione non ho dovuto fare altre modifiche, è venuto bene al primo colpo e ho ringraziato mentalmente l’autrice perché i tempi erano stretti. E ho avuto la mia soddisfazione perché ho dovuto metterlo via prima del cambio di stagione perché continuava ad essere scelto anche se era un po’ pesante per la temperatura attuale.

Successo completo, insomma. Mi è solo rimasta una gran voglia di farne uno anche per me, con quel gufetto solitario un po’ sghembo, ma ora arriva l’estate quindi se ne parlerà a Settembre, e magari mi sarà passato il desiderio poco raccomandabile di andare in giro con animali di maglia sui vestiti, che ho passato l’età. O forse no. In fondo un blog come si deve dovrebbe creare un po’ di attesa degli eventi, oltre a quella per i post terribilmente saltuari, vero?

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Jole

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Ci sono modelli che appena li fai avresti voglia di rifarli, magari cambiando lana e qualche particolare, per il gusto che ti hanno dato. Jole è uno di questi modelli versatili, con quel quid geniale dato dalla scollatura asimmetrica che si inserisce perfettamente nella lavorazione top-down. Lo si può trovare nel libro di unitecontroilcancro, che riconsiglio di avere perché si fa del bene e si fa del bello a comprarlo.

In realtà la sua lavorazione risale all’anno scorso. Che qui, quando si parla di gratificazione istantanea da maglia, per me il concetto si traduce nell’avviare le maglie per un maglioncino striminzito ©, cioè quei top aderenti fatti di pochi gomitoli, quanti quelli di uno scialle e poco più di quelli di un collo, che poi però ti metti addosso e non puoi definire solo “accessori”. Perché dire “ho fatto un maglione” anche se piccolo e stretto, alza comunque la tua autostima lanosa, pure se è il centesimo che fai.

Ho provato a fotografarlo a suo tempo da sola con spirito acrobatico ma le foto erano uscite terribili e poi non l’avevo messo spesso perché la manichina corta poco si addiceva ai freddi climi bolognesi. La lana non mi ricordo da dove viene e ora non ho più la fascetta ma era un misto mohair con 15% di acrilico, tollerabile visto che il mohair ha comunque bisogno di un po’ di sostegno, con questo colore e consistenza che sembra venire direttamente dagli anni ’80. Fortunatamente me ne avanzava un pochino, di filato, e sono riuscita ad allungare le maniche a 3/4, lasciando in fondo uno spacchettino simile a quello che avevo lasciato sui fianchi per facilitare la vestibilità.

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Il maglione rivela un mio difetto atavico nel lavoro, il bordo delle coste che non mi viene mai dritto dritto come vorrei, e con i ferri circolari il problema sembra si sia acuito, devo capire perché, ma lo amo lo stesso, così, asimmetrico e un po’ imperfetto.

from instagramLo indosso così, fermato dalla spillina con le perline di corallo del battesimo e abbinato al marrore per evitare l’effetto troppo eigthties e chi segue il mio profilo di instagram lo trova battezzato come pezzo del mio #guardarobasentimentale, perché addosso con lui porto la storia di Jole e di un bel libro con un pattern che porta il suo nome, un modello che va oltre il suo design perché racconta un pezzo di storia e di amore della figlia di Jole, che l’ha inventato e ha voluto donarlo per aiutare altre donne nella lotta contro il cancro.

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La copertina

Copertina

Mi sono beccata questa influenza molto pesante che gira quest’anno. Me l’ha attaccata il piccolo, che si è appeso a me come una cozza con la febbre a 39,7 e vuoi forse metterlo giù e prendere le normali precauzioni igieniche, tipo non farsi sbavare in faccia? Insieme a me si è ammalato anche il grande, e siamo finiti tutti e 3 nel lettone mentre il papà dormiva sul divano per 3 giorni per non essere contagiato, che se la prendeva anche lui eravamo fritti. E’ un po’ uno smacco, visto che io mi ammalo difficilmente e questi giorni avevo tipo 2 appuntamenti importanti e altre 40 cose da finire. Ma dopo aver provato a lavorare con la febbre per 10 mn ho ceduto. Di prendere qualcosa per i sintomi non se ne parlava, credo che sia una delle ragioni per cui mi ammalo con difficoltà: se sta per cascare il mondo posso anche farlo, per il resto se non riesco a lavorare con la febbre è volontà del mio corpo che mi riposi, e siccome spero che lui mi serva ancora per un bel po’ mi tocca ogni tanto dargli ascolto. Tanto comunque anche badare a due bimbi malati mi tiene attiva a sufficienza.

Fortunatamente i nonni, tenuti alla larga tramite segnali con teschi e grandi croci rosse per paura che si ammalassero, lasciavano davanti alla porta pacchetti pieni di cibo ipernutriente, succhi di frutta e biscotti, librini per i bambini e maipiùsenza come l’orologio dei bakugan che proietta una sorta di animale mostruoso sulle pareti. Con quello puoi giocare anche dal letto rantolante con la febbre, yeah.

E ritiravano sacchi di fazzoletti da naso a fiorellini, quadrettoni, eleganti di batista, di topolino e winnie the pooh da sterilizzare, che noi sia quelli che non usano e gettano ma che stavolta rischiavano di dare fondo alle scorte.

Alla fine ci siamo curati a polpettone, pasticcio di patate e merendine, che tanto alla pediatra non lo diciamo, e siamo passati dal letto al divano con copertina. E proprio dell’elogio della copertina fatta in casa vi volevo parlare.

Mai fatto copertine in vita mia fino a questo autunno. Manco per i miei figli.

 

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Le ha fatte la nonna, due minuscole copertine che adoro, di
pura lana merinos, che però a me magliaia casalinga faceva un male cane vedere coperte di rigurgitini o amabilmente ciucciate agli angoli. Per il resto, una mia amica d’infanzia me ne ha regalata una di pile cucita da lei, con un grazioso bordino in sbieco a contrasto e un orsetto impunturato, e da quel momento ho giurato fedeltà alle copertine di pile che se si sporcano vanno in lavatrice alla temperatura che vuoi e poi escono praticamente asciutte. E poi non so, la copertina in lana mi è sempre sembrato un lavoro lungo e noioso, mangiatrice di tanta lana e di poca soddisfazione.

Però l’anno scorso c’è stato il terremoto qui in Emilia, hanno fatto i controlli, hanno fatto dei lavori, e al piano di sopra della scuola dell’infanzia del piccolo non si può più dormire. Da quest’anno il pisolino del pomeriggio lo fanno tutti nella palestrina morbida su materassini di spugna coperti da asciugamani da mare. Con l’avvicinarsi dell’inverno hanno chiesto le copertine “ma non di pile, che c’è già abbastanza elettricità”. Ecco, e io e la mia pila di copertine di pile eravamo sistemate. E quelle di lana di quando erano piccoli erano… piccole.

Però io avevo ancora un terzo della rocca di merinos sottilissima con cui ho fatto l’adrift usandone più fili. E se sovrapponevo il filo un numero di volte sufficiente il lavoro proseguiva rapido. Anche il pattern è stato semplice, stavo facendo a tempo perso degli americani presi da una vecchissima rivista con un punto a triangoli che secondo me era adattissimo anche ad una copertina.

La lavorazione è stata veloce, giusto in tempo per l’arrivo del freddo. E mi è piaciuto. In fondo, la copertina è come portarsi dietro un po’ di mamma ed ero felice di farla con le mie mani per il mio piccolo Linus. La copertina è un abbraccio, è facile da fare, se viene un po’ più corta o più lunga non è grave e mentre la fai ti cade sulle gambe, ti avvolge, ti ringrazia, e tu già ne saggi le potenzialità attorno a te. Non parliamo poi del fatto che, se ti viene l’influenza, la copertina e il divano sono il miglior farmaco che puoi procurarti.

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Mou – Il pattern

Gonna lunga, marca sconosciuta o dimenticata, top Mou, sandali di cuoio artigianali comprati in un negozietto di Alghero

Ci sono bravissime designer che partono da un’ispirazione e la seguono per creare bellezza. Sono vere artiste, e il risultato finale è dato dal dare una forma al proprio pensiero.

Quando io invento una maglia invece parto quasi sempre dalla necessità: ho bisogno di un certo capo nel mio guardaroba, ho dei vincoli da rispettare, ad esempio un filato e una quantità definita, deve essere un capo che mi doni e che abbia una manutenzione agevole, e si deve integrare bene con altri capi di abbigliamento. Io sto alle vere designer di maglia con la sartina agli stilisti di alta moda.

Mou ha una storia ricorrente nei miei modelli. Questa storia inizia anni fa: avevo una gonna, una meravigliosa gonna leggera lunga fino ai piedi, dalle fantasie sul blu, azzurro e marrone, e non avevo niente da metterci. Doveva essere un capo aderente e non troppo pesante per completare un insieme estivo. Avevo 4 gomitolini contati di un filato in cotone sabbia, un po’ lucidino. E vari anni fa ne uscì un top a trecce con la scollatura a V, corto, che scopriva l’ombelico. Ero giovane, lo portavo al mare, e la mia pancia abbronzata poteva permettersi di essere lasciata scoperta il giusto. Poi gli anni sono passati, ci sono state due gravidanze e un minimo di aplomb portato dall’età, e l’insieme toppetino e gonna gipsy non riuscivo proprio più a vedermelo. Ma quando si lavora a maglia si impara una grande lezione di vita: quello che non ti piace disfalo e rifallo come lo vuoi tu. Così fu. Ho disfatto il top, l’ho legato in matasse, lavato e con il filato ho creato un altro capo più adatto, con il doppio vantaggio di liberare il guardaroba di un pezzo che non metto più e di confezionarne un altro a costo zero.

Dovevo però inventarmi un modello che coprisse la pancia pur utilizzando lo stesso filato. Intanto, le trecce mangiafilo dovevano lasciare posto alla maglia rasata, e poi, se coprivo sotto, dovevo ritagliare un po’ sopra. Da qui l’idea dello scollo all’americana, realizzato in maniera semplicissima con il metodo top-down.

Il nome è dovuto allo scollo arrotolato, che mentre lo provavo si accomodava tutto intorno al collo ricordandomi le caramelle tonde di caramello e vagamente anche al colore. Una ragazza simpaticissima conosciuta nel gruppo sulla lavorazione top-down ne ha testato la taglia M, sto provando a calcolare le altre taglie ma se nel frattempo volete provare a farlo eccovelo qui.

Mou

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Mou – nuovo modello – Coming soon…

E stavolta vi scrivo il pattern, promesso.

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Lo scollo a barchetta a modo mio

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Uno dei grandi vantaggi di lavorare a maglia è che, quando nei negozi di abiti non trovi quello che cerchi, hai sempre un modo per fartelo da sola. Un altro vantaggio è che puoi applicare la tua fantasia o, nel mio caso, arte di arrangiarsi e ottenere dei capi particolari che, appunto, nei negozi non ci sono. Originali per caso ma pure sempre unici.

Questa semplice maglietta in cotone blu risale alla fine degli anni ’90 ed è costruita con una tecnica che ho escogitato  per riuscire ad aggiustare un capo dallo scollo “sbagliato” e che poi è diventata una specie di marchio di fabbrica, l’ho applicata a moltissimi modelli, questo però prima di cominciare a lavorare con i ferri circolari e top down. Dato che l’ho messa i primi di Giugno per una gita con amici, ho convinto un Partenopeo riluttante a farle due foto (e naturalmente non avevo nessuna intenzione di far passare un mese per pubblicare il relativo post), ve la mostro nella sua dimensione un po’ vintage.

Perché a quel tempo c’era la caccia alla maglietta “perfetta” per la propria figura, non troppolargacheticoprailsedereafilo ma che, proprio perché così dipendente dal fisico di ognuna, non era tanto facile trovare. Specie blu scuro, da abbinare ai pantaloni a righe e fantasia che si usavano quell’estate. Naturalmente ci andava uno scollo a barchetta, gli scolli sono la mia ossessione e quelli a barchetta “squadrata” i miei preferiti, e avevo già fatto alcuni capi con questa tecnica e il solo tocco di estro rispetto alla mia produzione quasi seriale è stato inserire le fasce a grana di riso doppia sul bordo inferiore e sulle maniche.

La maglia è semplicissima da realizzare, si tratta di due rettangoli per il fronte e il retro, uniti lungo i fianchi e appuntati sulla spalla superiore. Le maniche sono due corti trapezi da modulare a seconda della larghezza e dello scalfo desiderato. La particolarità del collo è ottenuta inserendo due triangoli a grana di riso cuciti sui lati lunghi sotto il corto bordo superiore a coste tubolari della maglia. Le figure geometriche più semplici, un capo senza pensieri a cui sono ancora affezionata e che ogni tanto mi risolve il “cosa mi metto sopra il jeans elasticizzato”? E poi volete mettere la soddisfazione di un capo su misura che è rimasto tale dopo una quindicina d’anni e due gravidanze?

   
 
 
L’abbinamento è banalissimo, ma che volete, è pur sempre una maglietta che viene dagli anni ’90 ed ero in gita con i bambini. 
   Maglia di cotone – home made, jeans – Muji, sneakers scamosciate – Walsh, orologio – Seiko (e secondo me pure quello ha più o meno gli stessi anni), occhiali da sole (e da vista) –  Moschino (indovinate? tardi anni ’90 pure quelli…).

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Continuiamo a chiamarla Provvidenza

Come dice il poeta, life happens mentre nel frattempo sei occupato a fare altro, e a volte passa più di un mese e avresti qualche post pellegrino tra le bozze e nulla di pubblicato sul blog. Che per fortuna è un diversivo e questo consente di trascurarlo senza sensi di colpa e senza interventi di quell’antipatico di super io, che, come tutti i super, un personaggio del tutto a modo non può essere.

Il lavoro, ringraziamo i cieli, procede e quel côté avventuroso che mi ha portato nella vita mi rende allegra quasi come il chiacchiericcio continuo del piccolo guascone e gli amori improbabili del primogenito. E poi ho sfoggiato il mio Adrift sulla stampa nazionale, mi pare il caso di citarlo. Il giorno della foto nevicava a secchiate e davanti all’armadio non mi sono mascherata e ho messo abiti che sento più miei, i jeans con i fiorellini ad uncinetto, il mio cardigan compagno di vacanze e, tra l’altro, una maglietta B.e.

Infine Sabato si parte per Genova, grazie un buono regalato da una cara amica, perché anche se hai bisogno di staccare o di una piccola vacanza, sempre bisogno è, e la Provvidenza, da denominazione, provvede. I bimbi sono estasiati all’idea di tornare all’acquario e di entrare finalmente nel sottomarino, e ai genitori cambiare il paesaggio aiuta a cambiare prospettiva, e la prospettiva, come direbbe Anton Ego, è un bene prezioso di questi tempi.

Concludo mandando a far conoscenza con l’es il super io che mi vuole convincere che non è il caso di pubblicare post così inutili, una piccola vacanza ci vuole per tutti. La vita accade, dice il poeta, e io me la faccio accadere un po’ più in là questo fine settimana.

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Gli scialli e l’effetto nonna

Mi avanzava una bella pallotta dell’alpaca usata per l’Argilla e la gratificazione di sentire questo filato sotto le dita mi aveva lasciato la voglia di lavorarla ancora, senza contare che da tempo ho messo sulla lista dei capi indispensabili da procurarmi un maglioncino grigio perla, che completerebbe con estrema soddisfazione alcuni pantaloni e giacchini che ho nell’armadio. Purtroppo per un maglioncino, neanche striminzito ©, non bastava, allora ho pensato di farne un complemento che con una maglietta semplice sotto rendesse un effetto analogo.

Non solo per natura una sciallista, ne faccio pochi e sto in genere molto attenta alla vestibilità. Trovo che il modello sbagliato, portato magari con l’abbinamento sbagliato, sia quanto più infagottante ci possa essere sulla piazza. Se c’è un esito che la tricoteuse appassionata con smanie modaiole deve fuggire è “l’effetto nonna” e fare uno scialletto grigio è come camminare su un crinale periglioso a valle del quale ti attendono spunzoni e spunzoni di mise nonnesche.

Nonostante questo, ho deciso di fare uno scialletto grigio. Ho ripreso come modello di base l’Azzu di Emma Fassio. L’Azzu è un modello geniale nella sua semplicità: la sua versatilità sta proprio nella forma, che abbina la vestibilità di una sciarpa alla bellezza di linee di uno scialle. E’ lungo, si avvolge attorno al collo con facilità, cadendo poi a misura sulle spalle, senza lembi che pendono di qua e di là come può capitare a chi, come me, gli scialli non li sa proprio portare, ma non è poco aggraziato come il banale rettangolo sciarpesco. Per evidenziare la morbidezza del filato, ho deciso di lavorarlo largo, con ferri del 9, in modo da accentuare l’effetto caldo, arioso e un po’ rustico, e sono molto contenta del risultato. Sempre per calcare sull’effetto caldo-ma-leggero, ho modificato il disegno del modello con un bordo più spumoso e caratteristico, più buchini, più legaccio, più spessore e leggerezza.

Ho fatto le foto senza neanche svaporarlo quindi i bordi risultano ancora un po’ stortarelli, ma stavo quasi pensando di tenerli così, imperfetti e mobili.

Per quanto riguarda il livello di gratificazione, è stato decisamente elevato: un avanzo di un filato di qualità, pochi giorni di lavoro e un capo morbido come è difficile trovarne. E ora, con tutta quella neve qui fuori, non posso desiderare di più.

E ora gli abbinamenti:  Azzu shawl – home made, cardigan misto cachemire con doppia abbottonatura – Diffusione Tessile, jeans neri – Muji. 
Si fa così? Temo di non essere molto portata come knitter-fashion-blogger.

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Argilla – maglione da uomo

Ho finalmente acchiappato il Partenopeo perché posasse con indosso la mia ultima fatica, il mio primo maglione da uomo.

L’ho realizzato come ho realizzato la maggior parte dei capi da quando avevo 13 anni, preso un filato, immaginato un modello di massima, i ferri e via, come mi ispirava il percorso. In questo la lavorazione topdown è decisamente d’aiuto, infatti per questo maglione ho preso le misure del collo e poi man mano ho adattato la vestibilità.

L’ho chiamato Argilla per il suo colore grigio e proprio per questa caratteristica di aver lavorato un filato come creta, circolarmente, e di aver ottenuto questo capo che mi ha dato molta soddisfazione. Volevo losanghe che si intrecciassero davanti e dietro, partendo dall’alto e andando a  complicarsi man mano verso la base e il disegno è venuto come lo avevo in testa, con il particolare di unirsi sui fianchi, di scambiarsi sotto le maniche e di sfumare nelle coste del polsino, che è un risultato esteticamente molto gradevole.

Il filato usato è una rocca comprata su ebay, 78% alpaca, 20% lana e 2% nylon. Mi è piaciuto molto lavorarla, era morbida e leggera ma con una buona definizione, ne è avanzato un po’ e ci ho fatto un’altra cosina che vi mostrerò prossimamente. Non ricordo il costo, ma comunque era contenuto per la quantità di filato, segno che comunque si possono continuare a fare maglioni senza spendere miliardi.

Altri due particolari che sono contenta di aver curato è il punto con cui sono distribuiti gli aumenti degli scalfi. Non so se l’avevo mai visto in giro, di certo non sarò l’unica ad averlo impiegato, ma il motivo spigato che risulta dall’aver aumentato a diritto distanziando via via le maglie sul rovescio mi è piaciuto e penso che lo ripeterò.

Ultimo, il retro è elaborato esattamente come il davanti. Cerco sempre di curare il retro dei maglioni che realizzo, è proprio una mia fissazione, anche se devo acquistare una maglia non la prendo mai che abbia una importante decorazione unicamente sul davanti e un retro spoglio e magari poco curato. La schiena è visibile esattamente come il viso agli altri ed è un peccato che venga trascurata. Posto che che non è il caso di metterci nulla di particolarmente arzigogolato che possa dare fastidio quando ci si appoggia, se posso realizzare un capo che abbia una decorazione a tutto tondo il mio livello di soddisfazione aumenta.

Ora i difetti. Il collo è ripreso, non sapevo come farlo e l’ho lasciato con un filo di avvio provvisorio, poi l’ho lavorato da lì a coste 2/2. Ora che ho in mente il modello globalmente, avvierei direttamente dal collo e farei partire la losanga da lì esattamente come per i polsini. Inoltre gli scalfi sono un pelo troppo ampi per cui ho dovuto operare più diminuzioni di quante volessi nelle maniche, che hanno quindi una linea più morbida rispetto al busto che volevo piuttosto aderente. Indossato non si nota, ma quando lo rifarò aggiusterò questi particolari.

Insomma, sono abbastanza soddisfatta, soprattutto per la resa del punto con il filato. Voi che ne dite?

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